Parafrasi dal verso 756 al verso 887 dal Libro VI dell'Eneide che narra della
profezia del padre di Enea,
Anchise, riguardo
la fondazione di Roma.
Parla Anchise
Dice che svelerà la felicità che toccherà ai Troiani, i quali presto daranno origine a discendenti di origine italica, personaggi illustri che renderanno loro onore, e (svelerà) il destino di Enea.
Poi indica un giovane che sta appoggiato ad una lancia senza punta di ferro e che occupa un posto tra quelli che stanno per uscire dagli Inferi, lui infatti sarà il primo a tornare in vita; sarà per metà di stirpe italica, si chiamerà con un nome albano, Silvio, e nascerà dopo la morte di Enea; verrà allevato nei boschi da Lavinia, la sposa di Enea, sarà re e padre di re e la sua stirpe dominerà Alba Longa.
Dice che accanto a Silvio ci sono Proca, gloria dei troiani, Capi, Numitore e Silvio Enea che porterà lo stesso nome di Enea e dimostrerà le sue stesse doti di
pietas e valore militare se riuscirà a regnare su Alba.
Poi indica dei giovani di valore che portano sul capo la corona di quercia che viene data come premio per il valore militare. Alcuni di questi giovani erigeranno le città di Nomento, Gabi e Fidene, altri fonderanno sui monti Collatini alcune città fortificate come Pomezia, Castro d'Inuo, Bola e Cora.
Questi saranno i nomi delle città che sorgeranno, anche se al momento sono solo terre senza nome.
Continua dicendo che a Numitore sarà vicino Romolo, figlio di Marte, nato dalla violenza su Rea Silvia, che avrà il sangue di Assaraco.
Anchise indica il doppio cimiero che svetta sull'elmo di Romolo che è lo stesso che aveva suo padre Marte e che lo contraddistingue per l'onore tributato dagli dei.
Si rivolge poi ad Enea dicendo che l'onorata città di Roma, sotto la guida di Romolo, dominerà su tutte le terre e sarà nobile come è nobile l'Olimpo; (Roma) da sola circonderà di mura i sette colli e darà origine a una stirpe di eroi: come la Grande Madre Cibele vive il trionfo tra le città della Frigia, orgogliosa dei suoi discendenti, così Roma, madre feconda di eroi, avrà gloria fra le città del mondo.
Chiede ad Enea di voltarsi a guardare i suoi discendenti Romani.
C'è Cesare Ottaviano e tutta la famiglia di Iulo che in futuro vivrà sotto l'ampia volta del cielo.
Poi indica l'uomo che spesso Enea sente nominare, l'Augusto Cesare, figlio del divino Giulio Cesare, che darà vita al nuovo secolo d'oro del Lazio, nelle terre che un tempo furono governate da Saturno; lui estenderà l'impero sui popoli del deserto e sugli Indi, oltre i limiti del mondo conosciuto, oltre la volta celeste, dove lo Zodiaco e il Sole compiono il giro di un anno e dove Atlante porta sulle spalle il cielo pieno di stelle.
Dice che fin da quel momento i regni che si trovano sul Mar Caspio e la terra presso la palude di Meotide temono il suo arrivo preannunciato dai responsi divini, e fremono di paura le acque alla foce del Nilo. Continua dicendo che nemmeno Ercole percorse tante terre quante saranno quelle dei Romani, nonostante (Ercole) abbia catturato la cerva dal piede di bronzo liberando i boschi del monte Erimanto e abbia ucciso con l'arco l'Idra di Lerna; e neanche Bacco che, con redini fatte di tralci di vite, si dirige verso l'India guidando un carro trainato da tigri
Anchise dice che, confidando in così tanta grandezza futura, non bisogna esitare a estendere il potere della nuova città e a raggiungere la terra promessa.
Poi chiede chi sia quell'uomo là in fondo, che porta una corona di rami d'ulivo e che indossa gli abiti sacri (è Numa Pompilio). Fa notare i capelli e la barba bianca del re romano che darà vita a nuove leggi, lui che è venuto dalla piccola cittadina di Curi ed è destinato ad un grande impero. Dopo di lui ci sarà Tullo (Ostilio) che interromperà il lungo periodo di pace a Roma e porterà nuovamente in guerra i soldati inattivi e disabituati alle vittorie. A lui seguirà Anco (Marzio), uomo troppo vanitoso che fece troppo affidamento sul favore del popolo. Poi chiede ad Enea se voglia vedere la stirpe dei Tarquini, l'uomo superbo (Tarquinio) e i mazzi di dodici verghe che furono recuperati da Bruto quando tolse il potere ai Tarquini. Bruto fu il primo console della Repubblica Romana che non esitò a giustiziare i propri figli quando scoprì che facevano parte della congiura (inusitate guerre) organizzata da Tarquinio il Superbo contro Bruto. Saranno i posteri a dare un giudizio su quanto accaduto: alla fine trionferanno l'amore per la patria e il desiderio di gloria.
Poi indica i Deci, i Drusi (sono famiglie romane) e Torquato (Tito Manlio) che fece giustiziare con la scure il proprio figlio, e Camillo (Marco Furio) che recupererà le insegne romane perse in battaglia.
Indica ancora delle anime che indossano armature scintillanti (sono Cesare e Pompeo) e che adesso, lì negli Inferi, sembrano andare d'accordo, ma che quando torneranno in vita saranno protagonisti di grandi battaglie e tremende lotte. Il suocero (Cesare) scendendo dalle Alpi Marittime verso la cittadina fortificata di Monaco, il genero (Pompeo) insieme al suo esercito di soldati raccolti in Oriente.
Anchise fa appello ai suoi discendenti perché non scatenino guerre civili e poi chiede a Cesare, che discende dalla stirpe degli dei, di posare le armi.
Continua dicendo che Lucio Mummio, dopo aver sconfitto gli Achei a Corinto, sfilerà sul carro dei vincitori in Campidoglio, mentre Paolo Emilio sconfiggerà Argo e Micene, combattendo contro Perseo (Eacide), discendente dal valoroso Achille, vendicando in questo modo la distruzione di Troia e la violazione del tempio di Atena (Minerva).
Chiede chi tacerebbe riguardo il nobile Catone (il Censore) o riguardo Cosso. Chi (tacerebbe) dei Gracchi, o dei due fulmini in guerra, gli Scipioni distruttori di Cartagine (la Libia), chi (tacerebbe) di Fabrizio (Gaio Fabrizio), famoso per la sua onestà, o di Serrano (soprannome di Attilio Regolo) che era intento alla semina quando fu eletto console.
Anchise si domanda dove lo porterà la famiglia dei Fabi con le sue imprese.
Lo chiede anche a Fabio Massimo che, prendendo tempo, riuscì a salvare Roma dall'attacco del nemico.
Dice poi che alcuni popoli sapranno creare oggetti di bronzo che paiono respirare, e saranno capaci di eseguire sculture con capacità espressiva, altri popoli avranno eccellenti oratori nei processi e sapranno comprendere i fenomeni astronomici, ma, dice rivolgendosi ad Enea, i Romani devono ricordarsi che essi domineranno i popoli del mondo; questa sarà la vera capacità dei Romani: di pacificare le genti, evitando di uccidere coloro che si arrenderanno, ma annientando quelli che si ribelleranno al loro volere.
Anchise continua rivolgendosi ad Enea e alla Sibilla che lo guardano meravigliati e indica loro Marco Claudio Macello, console romano ricco di bottini di guerra (glorioso di spoglie) e migliore di tutti gli altri guerrieri. Lui, facente parte dell'ordine dei cavalieri, aiuterà lo Stato Romano e sconfiggerà i Punici e i Galli in guerra contro Roma, e appenderà per terzo, nel tempio di Quirino, le spoglie opime.
Parla Enea
In quel momento Enea, vedendo insieme a Marcello un giovane straordinariamente bello, adornato di ricche armi, ma con l'espressione triste e gli occhi chini sul volto, chiede ad Anchise se costui sia il figlio di Marcello o qualcuno della sua stirpe. Fa notare che molti compagni si sono radunati lì intorno, ma questo giovane spicca fra loro per la sua maestosità e per il fatto che la sua testa è circondata da un'ombra nera come la notte, presagio di un destino triste.
Parla Anchise
Piangendo Anchise si rivolge al figlio, dicendogli di non chiedere del destino di quel giovane che ha rappresentato un grave dolore per i Romani: il fato ha voluto che lui stesse sulla terra per poco tempo (è morto giovanissimo) e non continuasse a vivere. Dice, rivolgendosi agli dei, che se i Romani avessero avuto più uomini come quel giovane sarebbero sembrati troppo potenti anche a loro.
Il giorno dei funerali del giovane Marcello tanti eroi piansero per lui presso il Campo di Marte e che oggi il Tevere, scorrendo nel suo letto, passa accanto al monumento funebre fatto costruire da Augusto per sé e per i propri discendenti.
Continua dicendo che nessuno dei discendenti dal popolo di Ilio ha portato in alto le speranze di Roma quanto farà il giovane Marcello, né Roma potrà mai vantarsi di avere avuto un altro giovane simile a lui.
Dice che grazie alla pietas, alla fede, al valore militare, nessuno avrebbe avuto il coraggio di affrontarlo in battaglia senza uscirne sconfitto, sia che lo avesse attaccato a piedi, sia cavalcando un valoroso destriero. Si rivolge poi al figlio dicendo che se lui sarà più forte del destino, allora sarà degno della stirpe dei Marcelli.
Chiede che si spargano moltissimi gigli e fiori rossi, anche se questi riti non potranno nulla contro la morte del giovane.